g.r. – E’ uscito “Alan Wake”, gioco piuttosto atteso per varie ragioni. Fra le altre, che è stato concepito da Remedy, i creatori di “Max Payne” (2001), una storia digitale che ha fatto epoca per la qualità narrativa e le soluzioni creative (per esempio, gli intermezzi in stile fumetto e il “Bullet time”, rallentamento temporale che consente al protagonista di fronteggiare i nemici), al punto da meritarsi una “ricaduta” cinematografica.
Anche “Alan Wake”, come il predecessore, è stato definito uno sparatutto in terza persona, ma sarebbe ingeneroso fermarsi qui: è vero, nei due titoli c’è molto da combattere e da sparare, ma la dimensione della storia in entrambi i casi è forte, almeno nelle intenzioni. L’esordio di AW è un omaggio visivo e tematico a “Shining” di Stephen King, scrittore del quale viene declamata una citazione mentre sullo schermo scorrono boschi ripresi dall’alto. “Shining” tornerà anche più avanti, e non per caso: si tratta di un riferimento tematico diretto: anche Wake è uno scrittore perseguitato dal lato oscuro, e anche per lui la moglie diventa parte dell’incubo.
Ho giocato volentieri ad AW. Forse nella trama si procede fin troppo linearmente, senza sussulti e senza fare scelte significative: c’è poco da scegliere, bisogna scappare e colpire. In fin dei conti la sutura tra dimensione interattiva e ludica non avviene perché giocare, combattere, esplorare, è il prezzo che si paga per mandare avanti la storia. Lo si paga volentieri, grazie alle scenografie raffinate e alla suspense continua; ma la storia resta relegata al ruolo di pretesto per compiere le azioni che la trama ordina di volta in volta.
Un gioco adatto a chi ama le storie horror (ma qui non si esagera: come in Stephen King, il vero orrore sta nello scarto rispetto alla normalità, che è punto di partenza e, si spera, di arrivo), con l’ovvio condimento di sangue e buio. Pegi 16, formato esclusivo Xbox Microsoft.
Giuseppe Romano
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